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I miei anni con Luciani (Interviste 2008)


Mons. Francesco Taffarel, lei è stato segretario particolare di Albino Luciani dal 1966 al 1970. In particolare fu al suo fianco quando era vescovo a Vittorio Veneto (Luciani fu vescovo dal 1958 al 1969). Partiamo dalla fine: che emozione ha provato quando, la sera di quel 26 agosto 1978, sentì pronunciare il nome di Albino Luciani dopo l'Habemus Papam?

Nella mattinata del 26 agosto 1978 ero andato all'ospedale di Mestre a trovare il vescovo di Vittorio Veneto Antonio Cunial, ospite per una cura agli occhi. Da cinque giorni il vescovo Cunial aveva preparato il telegramma da indirizzare al nuovo Papa, che prevedeva nella elezione del Patriarca di Venezia, Albino Luciani. Il telegramma lo tenevo vicino al telefono. Dopo una alternanza sul colore della fumata, sentii dalla radio pronunciare il nome di Luciani: subito inoltrai il telegramma che esprimeva «la esultanza dei diocesani vittoriosi e del Triveneto memori della preziosa azione episcopale prodigata, ora doppiamente spirituali figli». Mi resta il ricordo di una grande emozione interiore, che riscontravo anche in tantissime persone che avvicinavo.
 

Chi era nella vita privata Albino Luciani?
Venni chiamato dal vescovo Luciani nel mese di giugno 1967. Mi disse: «Ho bisogno di te come segretario particolare, per qualche anno; poi ritornerai al servizio pastorale parrocchiale; non avrei piacere che ti abituassi a calpestare tappeti e corsie».

 

Come segretario ricopiavo e ricopiavo a macchina i suoi scritti, le sue lettere, gli interventi che gli venivano richiesti, sempre “tormentati” da molte correzioni, sempre da migliorare; lo aiutavo nella ricerca bibliografica, di documenti, di libri, dove egli aveva preso delle annotazioni; accoglievo le persone che chiedevano di incontrare il vescovo. Gli facevo da autista; durante i molti viaggi il vescovo leggeva. Di sera una piccola lampada illuminava le pagine del libro, per non disturbare la guida. Commentava, pensando ad alta voce, quanto andava leggendo e sottolineando, perché era abituato sempre a tenere la penna in mano. Nelle varie celebrazioni in parrocchia facevo un po’ anche da cerimoniere, con semplicità.

 

Luciani diceva: «Sono un montanaro, figlio di povera gente… a vivere in un castello mi “sembra di essere "arlecchin finto principe”…», e infatti fece togliere lo stemma vescovile dall'ingresso. Sempre gentile e premuroso, ringraziava dei servizi, salutava ed augurava il buon giorno e la buona notte; alla sera lasciava liberi di andare a riposare, mentre egli in camera continuava a leggere e scrivere. Credo che non abbia mai dimenticato di salutare e ringraziare la domestica del parroco che gli dava ospitalità.

 

Si alzava verso le 5 del mattino; era abituato a trovare un tazza di caffè; nella cappella del vescovado meditava sulla Scrittura, concelebrava la messa e sempre brevemente rivolgeva una breve omelia, che desiderava fosse pronunciata anche quando egli assisteva alla messa, celebrata dal segretario con la partecipazione delle suore.

 

Recitava il Rosario camminando avanti e indietro nel lungo corridoio o durante il viaggio.

 

Era povero di denaro, che non teneva mai in tasca. Quanto gli venne offerto e possedeva, lasciò interamente alla Diocesi di Vittorio Veneto; portò con se a Venezia solo le varie casse di libri e la poca e semplice biancheria.

 

Spesso egli personalmente apriva la porta del vescovado, rispondeva al telefono, riceveva fin dalle prime ore del mattino sacerdoti e laici, era disponibile senza fretta, attento alle varie situazioni di povertà e di difficoltà manifestate da quanti si rivolgevano per un aiuto e per un conforto. Succedeva, non raramente, che partendo presto per la visita Pastorale, egli si alzasse per primo, preparava il caffè e a volte bussava alla porta della camera del segretario.

 

 

Cosa era rimasto nel suo cuore e nel suo atteggiamento delle origini montanare e umili?

Ha conservato l’amore per la sua terra, per le sue meravigliose e uniche montagne, per il seminario, il suo vescovo e il parroco della sua parrocchia. Ha conservato la costanza nella fatica, una forte personalità abituata all'essenziale. Non si lasciò adescare dalla “volpe della superbia”, alla quale egli pensava di aver fatto il funerale e di averla sepolta sotto terra.

 

Nelle sue pagine e omelie si possono ritrovare, come “humus”, la sua vita a Canale d’Agordo, l’educazione ricevuta, la famiglia, la mamma, la parrocchia. Anche dopo la sua nomina a Patriarca di Venezia, Luciani ripeteva: «Si continua come sempre, sono quello di prima, solo con maggiore responsabilità davanti a Dio».

 

 


E’ stato ricordato come il Papa del sorriso: cosa esprimeva quel sorriso?

Viene ricordato come “catechista sorridente”, che in modo unico e magistrale sbriciolava il Vangelo con parole facili, inchiodate a esempi anche faceti; “le nuvole alte, solleva ripetere, non mandano pioggia, bisogna parlare senza mitria, cioè in modo semplice, ma non semplicistico».

 

Il suo sorriso era frutto ed espressione di amore e di fiduciosa e incrollabile sicurezza in Dio. Partecipava la gioia, l'ammirazione, l'amore per Cristo e la sua Chiesa nello stupore per le meraviglie del Signore. Diceva: «Due cose sono certe: Dio è onnipotente e mi vuol bene. Se Dio dà una croce dà anche la forza per portarla. Io mi lascio portare da Dio». Era rivestito di serenità cristiana, alieno da disfattismo, aperto ad accogliere il bene di Dio, persuaso che «la vita buona e onesta, con le sue difficoltà reali, non è grigia servitù, ma esaltante e radiosa epopea. La felicità non è complicata, fatta di grandi cose e rare, cercate con mezzi straordinari, è fatta di piccole cose, della pace mantenuta in mezzo alle inevitabili prove della vita, della amicizia con Dio, capace di compensare le delusioni e i tradimenti degli uomini, del sapersi limitare nei propri desideri perché essi non diventino i nostri tormentatori».

 

 

A Vittorio Veneto ebbe più di qualche problema: un grande crack finanziario, una parrocchia che divenne ortodossa... come li affrontò?

Affrontò, aiutato e sostenuto dai suoi sacerdoti, il caso del dissesto finanziario, con grande sofferenza, perché, diceva, «povera gente e piccoli risparmiatori rischiano di perdere tutto, ma soprattutto perché rischia di essere minato l'amore e la stima per la Chiesa». Scriveva: «Due miei sacerdoti hanno sbagliato, non nelle cifre esagerate, non responsabili per traffico di stupefacenti o per cose peggiori, ma tanto più hanno sbagliato quanto maggiore era la fiducia di cui godevano… In questi giorni, (siamo nel 1962), contemplo con incidibile pena il danno delle anime, l'umiliazione e lo scoraggiamento dei buoni, dovrei essere il primo a dichiararmi amareggiato e offeso». E poi: «Ai risparmiatori, ai creditori la Diocesi ha deciso di fare onore, non perché obbligata ma perché si tratta di gente non ricca che ha prestato sulla fiducia del sacerdote… Mi ha sommamente addolorato che in questa penosa vicenda si sono volute tirar per forza persone venerande. Quanto a me… me ne appello a chi mi conosce. Se mai ho pensato al denaro, l'ho fatto in maniera piuttosto staccata e idealistica, come quando ho ricordato all'economo del Seminario di andare a pescare una balena per pagare i debiti».

 

Una altra difficoltà Luciani l'ha sofferta nella situazione pastorale, per quanto riguardava la parrocchia di Montaner. Gli sembrava e stimava cosa normale e scontata il succedersi di sacerdoti negli incarichi pastorali per il bene delle anime. Si rivelò necessario conservare e vivere la pazienza, con incontri e proposte ripetuti, unita a chiarezza di amore alla Chiesa; si arrivò alla fine ad una soluzione concordata. Ne soffrì molto per il cattivo esempio offerto . Non poche volte, passando davanti alla Immagine della Madonna sulla via di casa, affidandosi a Lei aggiungeva: «Non sono capace di fare il vescovo. Aiutami ed accompagnami per non fare sgorbi».

 

 

Ricorda qualche aneddoto del periodo nel quale fu vicino a Luciani?

Di ricordi personali ne avrei tanti, belli, che hanno anche il sapore dei “Fioretti”. Se avessi saputo prima, avrei cercato di conservare anedotti, frasi significative...

 

Ne ricordo due che possono manifestare lo spessore pastorale del vescovo Luciani.

Il vescovo stava terminando la visita pastorale nella parrocchia di Vazzola; una telefonata da Torino avvertì che la sorella suora del Cottolengo, era grave e desiderava vederlo. Luciani continuò nella visita agli ammalati in famiglia, ritornò a casa alla sera; consumò una breve cena e alle 23.00 in macchina partì per Torino, dove arrivò verso le ore 6.30. Celebrò la messa a suffragio della sorella, si premurò di far riposare il segretario; verso le ore 9.30 ripartì e sotto un cavalcavia della autostrada consumò a mezzogiorno i panini che gli erano stati preparati. Alle ore 15 giunse puntuale nella parrocchia di Oderzo per un incontro con il gruppo delle donne, riunite per la visita pastorale. Dispensò il segretario dalla recita del Breviario. In serata incontrò un gruppo di giovani in altra parrocchia, che lo contestarono vivacemente perché lui aveva una macchina, un castello, libri… e loro non avevano denaro per farsi una casa. Tornando a casa, commentò: «Mi pare di aver fatto anche oggi il mio dovere, di aver fatto quello che dovevo fare».

 

Un’altra volta dopo aver celebrato nella fabbrica Italcementi di Vittorio Veneto ed essersi fermato in cordiale colloquio con gli operai, verso le 9.30 in auto partì per Roma, atteso ad un incontro della Cei. Dopo alcuni chilometri avvertì un forte dolore al fegato, per cui si ritornò indietro e subito incontrò il medico dott. Antonio Da Ros, che gli sconsigliò il viaggio. Ma lui rispose deciso che bisognava fosse assolutamente presente, gli venne praticata una iniezione, si distese sui dei cuscini in auto; per fortuna dopo un po’ di tempo il dolore scomparve e partecipò alla incontro Cei a Roma. Pensava: «Guai a me se non evangelizzo e se Cristo è morto per me, cosa posso fare io per Lui?».

 

 

Furono davvero importanti per la Chiesa i 33 giorni di Albino Luciani? Perché?

Importanti? Io credo di sì, anche perché sono convinto che alle spalle dell’arrivo di un nuovo pontefice, vi è sempre il mandato e la chiamata di Cristo Signore: “Simone di Giovanni, mi ami?” “Pasci le mie pecore!” e l’assistenza dello Spirito Santo che guida la Chiesa. Di Papa Giovanni l’idea che più ha colpito il mio spirito è questa: “Ecclesia Christi Lumen Gentium”. La Chiesa deve far chiaro a tutti, essa è di tutti, bisogna cercare di avvicinarla a tutti, gettare ponti verso il mondo.

 

 

Come trovò il papato, Albino Luciani, e come lo lasciò?

Disse al mondo intero: «Ieri andando alla Sistina per votare, mi hanno chiesto il nome. Ho pensato: papa Giovanni ha voluto consacrarmi con le sue mani qui nella Basilica di San Pietro, poi, benché indegnamente, a Venezia gli sono succeduto sulla cattedra di San Marco. Poi papa Paolo non solo mi ha fatto cardinale, ma alcuni mesi prima, sulle passerelle di Piazza San Marco, mi ha fatto diventare tutto rosso davanti a 20mila perone. Perché si è levata la stola e me l’ha messa sulle spalle. D’altra parte in 15 anni questo papa non solo a me, ma a tutto il mondo ha mostrato come si ama, come si serve e come si lavora e si patisce per la Chiesa di Cristo. Per questo ho detto: Mi chiamerò Giovanni Paolo! Io non ho né la sapientia cordis di papa Giovanni, né la preparazione e la cultura di papa Paolo, però sono al loro posto, devo cercare di servire la Chiesa». Penso possa essere indicativo della linea che Papa Luciani intendeva prendere, aprendo una strada che con semplicità, immediatezza e speranza determinata avrebbe portato avanti.

 

 

Durante quei 33 giorni ebbe modo di incontrare Papa Giovanni Paolo I?

Incontrai papa Giovanni Paolo I il 3 settembre all’inizio del suo servizio pontificale durante la udienza concessa al mattino ai Vittoriosi, ai Bellunesi e ai Veneziani. In quella occasione fu lui a consolare me e a dirmi parole che io non riuscii neppure a balbettare. Poi non ebbi altra occasione, partecipai al suo funerale e lo accompagnai fino alla tomba nelle Grotte Vaticane.

 

 

Quale fu il primo pensiero, quando ebbe la notizia della morte?

Nella mattina del 28 settembre 1978 stavo celebrando la messa in vescovado. Arrivò una telefonata che mi annunciava la improvvisa morte del Papa. Rimasi senza parola, sembrava impossibile. Lo ricordai al Signore e feci questa riflessione: ora lui è nella gloria di Dio, ha detto il “sì” al suo Signore, il “sì finale” e definitivo, che ha seguito ai tanti altri “sì” detti durante la vita. Questo “sì” ha suggellato la sua vita in cammino verso Dio.

 

 

E’ stata avviata ormai da tempo la causa di beatificazione di Luciani: fu davvero un prete santo? Quali le sue virtù?

Credo che Luciani sinceramente fosse in cammino verso Dio, amato sopra ogni cosa. «Salire, ripeteva, salire verso Dio per amare il prossimo come Cristo ha amato noi. Non sono uno che vola alto, mi accontento di volare basso come le colombe, da un comignolo ad un altro. E quando vado a confessarmi, torno a casa con l’anima che mi canta dentro». Grande la sua fiducia in Dio, dal quale sperava di essere aiutato ad amarlo sopra ogni cosa.

 

E penso sia significativo ricordare quanto Luciani disse l’ultimo giorno di permanenza a Vittorio Veneto. «Andiamo», disse Luciani nel primo mattino dell’8 febbraio 1970 mentre dalle finestre del vecchio Castello di San Martino, carico di storia, dava l’ultima “occhiata” alla città di Vittorio Veneto e cercava di abbracciare con sguardo affettuoso e commosso i numerosi paesi, sulle colline e in pianura, punteggiati di vigili campanili, che simboleggiavano fiorenti tradizioni cristiane. A quella ora le comunità cristiane erano invitate alla celebrazione dell’eucarestia e alla preghiera per il “loro” vescovo, che partiva per Venezia. Attraversando l’Arco “Card. Dalla Torre” esclamò: «Il Cardinale Dalla Torre… che brava persona. Io invece, sono uno scricciolo, sono polvere e lascio solo qualche abbozzo e progetto. Ed anche questi riusciti non bene. Quante volte ho percorso questa strada e ho sostato in preghiera alla Madonna, venerata in questo capitello».

 

Dalla torre campanaria della Cattedrale, erano le 9 del mattino, si snodava un solenne concerto di campane che lo fece sobbalzare sul sedile dell’automobile e domandare: «Cosa succede?». Risposi: «E’ un saluto e un ringraziamento». Riprese subito: «Ma avevo raccomandato di non fare niente… Pazienza, comandano sempre gli altri. Grazie a tutti».

 

Si rimise gli occhiali, che abitualmente teneva in mano e, giocherellando con l’anello pastorale, disse. «Non perdiamo tempo, recitiamo il rosario, oggi sarà una giornata impegnativa. Ad ogni modo Dio provvederà. Io non ho mosso un dito per andare a Venezia».

 

 

Sandro Vigani

                           

Tratto da Gente Veneta, no.36 del 2008

http://www.gvonline.it/leggi_id.php?id=4948