Sitemap | Ricerca | Contatto |
Home > La causa di beatificazione






Don Albino e la sua "avventura di santità" - 10/11/2006


Ieri mattina, «Berto» Luciani, fratello di Albino, s'è recato in cimitero a Canale d'Agordo, a pregare per i suoi morti. Lo farà anche questa mattina. Nel pomeriggio, sarà nella Cattedrale di Belluno per partecipare ai primi vespri di san Martino patrono della città, e alla conclusione della fase diocesana del processo di beatificazione di «don Albino» come ancora chiama Giovanni Paolo I. Un processo voluto nel 2003 dall'allora vescovo di Belluno-Feltre, Vincenzo Savio, convinto che «l'avventura di santità di Albino ci aiuterà a riscoprire le radici di una santità presente anche nei nostri padri; ancor più: sento che Papa Luciani ci prenderà per mano e inviterà ciascuno di noi ad inoltrarci con coraggio in quell'itinerario di santità a cui siamo tutti chiamati in Cristo Gesù».

Oggi sarà il vescovo Giuseppe Andrich a presiedere il rito. Avrà accanto a sé il postulatore don Enrico Dal Covolo, il vicepostulatore monsignor Giorgio Lise, gran parte dei 190 testimoni ascoltati tra Belluno, Vittorio Veneto, Venezia.

Nato a Forno di Canale (oggi Canale d'Agordo), ai piedi delle Dolomiti bellunesi, il 17 ottobre 1912, ordinato sacerdote il 7 luglio 1935, Luciani viene nominato vescovo di Vittorio Veneto da Giovanni XXIII il 15 dicembre 1958 e 11 anni dopo, il 15 dicembre 1969 Paolo VI lo nomina patriarca di Venezia. Il 26 agosto 1978 viene eletto al Soglio Pontificio assumendo il nome di Giovanni Paolo I. Muore 33 giorni dopo. Passa alla storia come «il Papa del sorriso».

I primi a sollecitare l'apertura della causa di beatificazione sono stati i vescovi brasiliani. «Quando nel febbraio 2001 fece l'ingresso in diocesi monsignor Vincenzo Savio, nessuno pensava a questa possibilità - ammette monsignor Giuseppe Andrich, che tra l'altro è compaesano di Luciani -. Lui stesso diceva a me, suo vicario generale, di temere il pericolo di mitizzare una persona sull'onda della popolarità. Dopo un anno, colpito intimamente dal sentire della gente e cogliendo le molte richieste che giungevano anche da fuori diocesi, monsignor Savio in maniera inaspettata promosse le necessarie consultazioni per avviare la causa. Ottenne dalla Santa Sede il consenso di istruirla con la prima inchiesta nella diocesi di Belluno-Feltre e subito ebbe plebiscitari pareri favorevoli in diocesi e nella Regione episcopale triveneta».

Oggi, a distanza di tre anni, la conclusione dell'inchiesta. Che «trova la nostra Chiesa molto riconoscente al misterioso disegno della Provvidenza E sentiamo quanto è stata determinante la sensibilità del vescovo Savio e l'opera di quanti hanno condotto l'inchiesta».

Il 23 novembre 2003 l'apertura del processo, con il cardinale José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione delle cause dei santi. Fu lo stesso Savio a convincere «Berto» Luciani a partecipare. «Mio fratello non avrebbe gradito tanto clamore» - cercava di resistere. «Onoriamo un campione della santità popolare» - lo rassicurava Savio -. «Era sentita da tutti l'elevatezza della sua persona sulla cattedra della sofferenza - ricorda oggi Andrich - e le vibrazioni delle sue parole esprimevano l'immedesimazione commossa nel solenne atto». La recente fiction televisiva è stata soltanto la «prova del nove» dell'ammirazione popolare che non solo resiste, ma cresce a 28 anni di distanza verso la figura spirituale di Giovanni Paolo I. «La fama di santità è stata custodita con riconoscenza verso il Signore da quel senso di fede che i nostri cristiani esprimono senza ostentazione, senza trionfalismi o forme devozionali ridondanti. La sua umiltà era effettiva: è tale quando si crede di non averla. In lui si esprimeva in una grande amabilità - così l'ha conosciuto e così ama ricordarlo monsignor Andrich -. Anche da noi la gente sotto i cinquant'anni che non l'ha conosciuto può essere attenta e reattiva - e in genere positivamente - a quanto è stato diffuso sulla figura di Luciani dai grandi mezzi di comunicazione, con approssimazioni e alterazioni di alcuni fatti. I testimoni della sua presenza e della sua opera in mezzo a noi sentono l'esigenza di scavare molto nel pensiero e nella vita di questo grande pastore. Il suo pensiero è di grande semplicità, ma mai semplicistico». Lo dimostrava da «vescovo del Concilio», a Vittorio Veneto, quando di ritorno da Roma riempiva la Cattedrale di preti e laici per parlarne con entusiasmo. «Sono d'accordo che per lui il Concilio Vaticano II è stato una conversione spirituale, teologica e culturale. Lo ha detto più volte. Mi sento meno d'accordo - puntualizza Andrich su talune interpretazioni - nell'alludere o affermare che prima del Concilio Luciani fosse su posizioni di chiusura e contrapposizione culturale all'evoluzione della società e della Chiesa. Fin dalla formazione in parrocchia, da seminarista, mostrava straordinaria apertura alla ricerca, al nuovo anche tecnologico, a studi e letture che spalancavano la sua mentalità. Nella città di Belluno sono molte le persone con lui e da lui formatesi alla lettura del linguaggio filmico, alla passione per le forme artistiche e alle espressioni più nuove della cultura. Certamente l'esperienza del Concilio è stata di grandiosa efficacia per la sua apertura; ma anche le stimolazioni precedenti, negli ambienti in cui visse, sono state per lui di arricchimento straordinario». Come le opere di Dino Buzzati, anch'egli bellunese, del quale quest'anno ricorre il centenario della nascita. Diceva Luciani: «Amo questo scrittore che non dimentica mai la morte».

 

Francesco Dal Mas

Avvenire, 10 ottobre ‘06