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Il ricordo di don Giulio Gaio nell’intervista televisiva del 1986


VENT’ANNI FA: I 100 ANNI DI DON GIULIO GAIO

Attraverso gli eventi che hanno segnato il XX secolo

 

Qualche tempo fa, nel mese di giugno, Telebelluno ha riproposto l’intervista realizzata da Corona Perera a mons. don Giulio Gaio in occasione del suo primo compleanno a tre cifre: “100 anni di vita, 100 anni di storia: don Giulio Gaio” (andata in onda per la prima volta nel dicembre 1986).

L’incontro con quella che è assurta, di diritto, tra le figure storiche del mondo cattolico, non solo feltrino, conserva, a vent’anni di distanza, una freschezza ed una vivacità immutate che restituiscono al telespettatore l’immagine di un uomo il cui spessore ed impegno non sembrano conoscere età. Durante i circa 45 minuti di conversazione, carica di emozioni e ricordi, alla viva voce di don Giulio si alternano scene di vita quotidiana che lo ritraggono tra l’amata Balilla, le galline, i conigli e i lavori di restauro del Santuario. Il narratore ricorda che quel giorno, accogliendo la troupe con un sorriso, don Giulio rimproverò bonariamente l’intervistatrice per averlo distolto dalla preparazione dell’incontro quotidiano col “Paron Grando”, ovvero la santa messa delle 7 e 30, cui assisteva immancabilmente la pronipote Carolina.

 

Accomodatisi nella sua stanza, rovista tra i tanti libri che tiene sulla scrivania e porge all’interlocutrice l’opera di don Guido Caviola sul vescovo Catarossi: “Un grande vescovo: povertà, modestia e familiarità con tutti. Quando usciva dal vescovado gli girava sempre attorno un nugolo di ragazzi”. L’album dei ricordi inizia dal 17 dicembre 1886, quando, alle ore 10, veniva alla luce Giulio Gaio, di Bortolo e Fiorenza Luigia Gaio. Don Giulio conservava il certificato di nascita appeso al muro della propria camera, “così ogni mattina ringrazio per un altro giorno da vivere”. Ricorda con il sorriso la sua infanzia, quando seguiva il padre -venditore ambulante- nei vari mercati del Veneto.

 

“Vivevo giorno per giorno senza filosofare. La mia vocazione venne da ragazzo. Ricordo ancora la chiesa, il confessionale ed il confessore a cui espressi il mio desiderio. Lo dissi alla mamma che accolse volentieri il mio proposito perché aveva altri due fratelli preti (uno, don Federico Fiorenza, di cui conserva la foto appesa al muro della camera, ndr). Mio padre invece voleva farmi studiare agraria e all’inizio non era troppo persuaso, ma poi si convinse. Nel 1900 entrai in seminario”. Fu ordinato prete nel 1913.

 

Di lì a poco scoppiava la Grande Guerra: “tutti mi consigliavano di fare il cappellano militare”. Egli invece preferì rinunciare a quell’incarico e alla relativa posizione di graduato: “volevo stare con i ragazzi e ho fatto la guerra con loro”. Ma è il seconda conflitto mondiale a portare con sé i ricordi più tristi e dolorosi che don Giulio ricorda con emozione. “Era il 19 giugno 1944. Mi trovavo a Feltre in seminario. Si era fatto tardi e pensai: resto qui, non vado a S. Vittore. Alle 3 di notte mi svegliano rumori di bombe e spari. Scendo dal letto e vedo dagli scuri le SS che circondavano il seminario. Sapevano che a S. Vittore davo rifugio a soldati che scappavano, ebrei e quanti erano in difficoltà. Entrano 2 guardie ed un ufficiale e mi chiedono chi sono: don Giulio, rispondo. Mi fanno salire su un camion e lì ho avuto un momento di sconforto, quando ho visto i corpi distesi e crivellati dai proiettili del col. Zancanaro e del figlio. Ho preso la corona del rosario che c’era in tasca e ho pregato. Di lì fu poi condotto alla caserma “Zannettelli” per un brutale interrogatorio di cui porta ancora i segni, che mostra, scherzando, alla telecamera: “mi hanno colpito il naso con uno scudiscio da cavalleggero e me lo hanno accorciato perché era troppo lungo”. Molto dura anche la lunga prigionia a Belluno (112 giorni in una cella di sicurezza), la cui violenza segna ancora, con un pizzico di commozione, le parole di don Giulio: “botte, fame e interrogatori. Mentre ero in cella pensavo a salvare la pelle e a riavere la libertà”. Quando l’intervistatrice gli chiede del giovane Albino Lucani, il volto di don Giulio si illumina. “Era un cannone tra i 25 alunni che seguivo ed erano anni in cui gli alunni studiavano veramente” chiosa sornione. “Aveva una memoria feroce ed era molto modesto. Quando lo hanno fatto papa mi sono detto: sarà un ottimo pastore; cultura ne ha, ma soprattutto è uomo di grande modestia, nonostante fosse il primo della classe!”.

 

Da un papa ad un altro: Giovanni XXIII. “Ho avuto modo di conoscerlo. E’ stato un papa coraggioso che non ha avuto timore di parlare sempre in modo chiaro e di rendere esplicita la posizione della chiesa. Fu un annunciatore di primo piano. Quelli sono papi che hanno vissuto tempi di battaglia”. La voce fuori campo, mentre scorrono le immagini di don Giulio intento a spaccare la legna o immerso nelle letture, ne ricorda il grande impegno civile e politico e suggerisce un suggestivo paragone: don Sturzo sta all’Italia come don Giulio al feltrino. “Ho combattuto come feltrino senza dimenticare che ero italiano. Sono stato amici di don Sturzo. Confesso che mi pareva impossibile che avendo mosso folle intere alla politica fosse anche un vero prete. Un giorno mi recai a Treviso per un convengo sulle cooperative bianche cui anch’egli partecipava. Andai, il mattino, nella chiesa di S. Nicolò dove don Sturzo officiava la messa e quando ho visto il modo con cui celebrava mi sono ricreduto. La sera, poi, era in programma un incontro con una delegazione di Feltre. Don Sturzo aveva fatto il giro dei comuni della marca trevigiana. Era stanco, arrivò verso le 19.30. Entrò mi vide e disse: solo il mio confratello comprende che ora devo assentarmi per assolvere ai miei obblighi di sacerdote. Si ritirò così per un’ora di preghiera”. Quando l’intervistatrice passa a snocciolare gli incarichi passati e presenti -insegnante, assistente diocesano, arciprete, protonotaio apostolico, ecc.- don Giulio la interrompe quasi seccato. Poi, sorridendo, riprende “Son tutte miserie. No ghe tegno a ste robe qua! Me basta esser prete autentico e se tornassi ancora fanciullo incomincerei di nuovo a fare lo stesso cammino”. L’incontro scivola verso la conclusione.

 

La telecamera si sofferma sulla vecchia Balilla ricoverata nel garage, dopo 52 anni di fedele servizio. Riferendosi all’uscita di strada a pochi passi dal piazzale del Santuario che tenne in apprensione tutti i feltrini commenta: “la macchina ha avuto più giudizio di me. Visto che non smettevo mi ha fatto smettere lei! Quelle sì che erano automobili: i le fasea parchè le durasse”. Prima di congedarsi un’ultima domanda: “quale è la sua regola di vita?”. “Chi vuol seguirmi prenda la mia croce e mi segua. Lascio fare al Paron Grando. Cerco di fare la Sua volontà come lo può fare un povero prete”. Prima di licenziare i suoi compagni del viaggio attraverso la memoria non perde occasione per rampognarli bonariamente, col suo fare a metà fra il burbero ed il commosso: “mi avete fatto un aggressione!

 

A 100 anni ci vuole quiete per prepararsi all’incontro col Paron Grande. P e G maiuscole, parchè de paroi ghe ne tanti…”.

 

Quell’incontro sarebbe avvenuto qualche anno più tardi, il 7 gennaio 1992. A volte, passeggiando nel chiostro del Santuario pare tuttavia di scorgerlo ancora mentre cammina appoggiandosi al bastone, fumando la sua inseparabile pipa e volgendo lo sguardo verso il suo amato feltrino.

Alberto Gaz

 

http://www.diocesi.it/santuario/rettori_passato.html