Sitemap | Ricerca | Contatto |
Home > Racconti e aneddoti






Intervista a mons. Mario Senigaglia

25 anni fa Papa Luciani


«VI RACCONTO IL MIO LUCIANI SEGRETO»

 

Di lui ha tenuto pochi documenti - "Ho sempre combattuto il culto della personalità: sono un suo cattivo testimone" - ma un mare di ricordi. Segretario del card. Urbani, mons. Mario Senigaglia aveva conosciuto per quel motivo l'allora vescovo di Vittorio Veneto Albino Luciani. Così è stato naturale per il neoeletto Patriarca - siamo nel 1969 - scegliere don Mario come collaboratore. Doveva essere un "interim", infatti non ha mai ricevuto una nomina con tutti i crismi; invece quel servizio durò ben sette anni.

 

Come è avvenuto l'ingresso di mons. Luciani a Venezia? In che clima veniva accolto?

L'attesa del nuovo Patriarca aveva maturato, sul settimanale diocesano La Voce di S. Marco, un dibattito sulle caratteristiche che doveva avere il nuovo Patriarca di Venezia. Erano gli anni del dopo Concilio: si riteneva che la comunità non solo poteva, ma doveva essere parte viva nella scelta del proprio vescovo. Da quel dibattito è emersa l?esigenza di un ingresso "povero": infatti non ci fu né corteo acqueo, né apparato di festa. Tutti, inizialmente, hanno avuto l'impressione che Luciani poteva essere il vescovo che desideravano. Veneto, proveniva da una famiglia semplice, era un uomo di cultura ed era aperto al dialogo.

 

Veniva considerato in quegli anni un vescovo aperto.

Sì, qualcuno l'aveva chiamato anche il "vescovo della pillola": a Vittorio Veneto aveva costituito un gruppetto di medici per studiare questa problematica. A nome dei vescovi del Triveneto era stato lui a scrivere una risposta sul tema, quando Paolo VI stava preparando l'Humanae Vitae. Bene, quando uscì l'enciclica Luciani disse in cattedrale che tutti sapevano qual era la sua posizione, la sua speranza, gli interventi pubblici che aveva fatto su questo tema in diocesi. Ma a quel punto Roma locuta, causa finita: Roma ha parlato... Ha riconfermato insomma la sua fedeltà alla Chiesa.

 

Quanto era diverso lo stile dei due patriarchi di cui è stato segretario, Urbani prima, Luciani poi?

Urbani nasceva veneziano, ma ha trascorso diversi anni a Roma, come assistente nazionale dell'Azione cattolica, prima di diventare vescovo di Verona. Quando nel 1958 viene a Venezia, porta quell'esperienza romana. Lì i cardinali, prima del Concilio, erano figure di principi, con le code stralunghe, gli ermellini; e c'erano le trombe d'argento, le sedie gestatorie... Urbani ha portato quel mondo a Venezia: io mi trovavo inizialmente a disagio ad andare in auto con i quattro motociclisti che facevano la staffetta. Per questo mi sono trovato molto più a mio agio con Luciani, che aveva invece "demitizzato" la figura del vescovo, del patriarca, del cardinale. Anche nel modo di vestire: portava lo zucchetto e la croce in tasca, se li metteva come segno quando arrivava ad una celebrazione, più come segno di rispetto agli altri che per apparire. Si muoveva molto più a piedi, o in vaporetto, piuttosto che in motoscafo, se non quando c?erano particolari necessità. I cardinali allora aveva diritto a posti riservati in treno, un intero scompartimento; ma lui preferiva andare in auto o in aereo, prendendo poi il suo taxi. Ha continuato a vivere a Venezia lo stile che aveva imparato, da giovane prete e poi vicario generale, dal suo vescovo di Belluno.

 

Uno stile semplice che è rimasto impresso nelle persone...

Sì, a Vittorio Veneto viveva in modo semplice i rapporti umani: andava lui ad aprire la porta quando suonavano, riceveva i preti senza appuntamento e così mi ha detto di fare a Venezia: "Guarda che per i preti il Patriarca è presente giorno e notte". C'erano preti in difficoltà che venivano, si fermavano a pranzo o a cena con lui, rimanevano suoi ospiti anche a dormire. Questo stile lo ha trasferito anche nella vita pastorale e nella semplicità della liturgia a San Marco. Inizialmente, anzi, a qualcuno faceva specie che il Patriarca parlasse a braccio e facesse esempi semplici. A chi gliel'ha fatto notare, ha risposto: "Quello che è stato utile a Belluno e a Vittorio Veneto lo utilizzo anche a Venezia". Lo stile dialogante delle sue omelie nasceva da una difficoltà fisica. Era stato operato alle tonsille e gli era rimasto da allora in poi un abbassamento di voce. A Belluno, non essendoci ancora i microfoni, aveva trovato che l'unico modo per farsi ascoltare e attirare l'attenzione era quello di dialogare con un bambino, per tirare fuori i temi di una catechesi con cui poi coinvolgeva anche l?assemblea degli adulti. L'abitudine gli è rimasta anche da Papa, quando ormai i microfoni c'erano...

 

Che rapporto aveva costruito con la gente?

Aveva facilità nei rapporti: era facile all'aneddoto, a instaurare un dialogo. Le prime volte, ricordo, vivevo con disagio i viaggi in vaporetto. Lui, infatti, cominciava a parlare con chiunque. Pensavo: va a rompere l'anima alla gente, noi veneziani preferiamo stare tranquilli... Invece interpellava i bambini, le mamme. Poi alla fine ero io che dicevo: "E' il Patriarca", e queste persone si stupivano ed erano felici. Tanto più agiva così durante le visite pastorali, o quando visitava le famiglie, i malati, gli anziani.

 

Come si svolgevano le sue giornate?

Si alzava molto presto, verso le 5. Quando la suora metteva su il caffè lo avvisava bussandogli alla porta. Era un'abitudine presa a Vittorio Veneto...

 

E che avrà mantenuto anche da Papa...

Sì, dev'essere stato quello che è capitato a Roma, la mattina in cui l'hanno trovato morto. Suor Vincenza bussa alla porta, lui non esce a prendere il caffè, allora entra e lo trova morto sul letto... La suora, non il segretario. Tanto è vero che io l'ho saputo quella mattina alle 6.15: mi ha chiamato una nipote, la Pia, che era stata avvisata da suor Vincenza.

 

Si alzava presto, dunque. E poi?

Poi pregava. Si metteva su un divanetto di fronte alla cappella, che usava anche per studiare. Teneva le porte della cappellina aperte e stava di fronte al Santissimo. Aveva, oltre a una carica umana notevole, una grossa spiritualità. Celebrava la messa alle 7, generalmente concelebravamo, alla presenza delle suore. Dalle 8 si chiudeva in studio: guardava la stampa e lavorava. Le udienze generalmente non cominciavano prima delle 9. Ed era a disagio, perché i tempi a Venezia si erano spostati tutti più avanti: pranzavamo alle 14, invece che alle 12, come faceva a Vittorio Veneto. Dopo un piccolo pisolino si metteva sul solito divano a pregare e studiare. Di pomeriggio, se non c'erano udienze, restava in studio fino all'ora di cena. Sulle 20.30 si ritirava in stanza, uscendo magari per il Rosario o per dire compieta in cappellina. Poteva andare a letto presto come tardi. E se di notte si svegliava leggeva, leggeva molto.

 

Che tipo di letture faceva?

Era abbonato a parecchie riviste internazionali, soprattutto francesi, di spiritualità, patristica, teologia. Leggeva il francese con estrema facilità. Amava molto la letteratura. A Belluno, dove pensava che sarebbe trascorsa tutta la sua vita, aveva regalato i suoi libri al Seminario. Quando è diventato vescovo di Vittorio Veneto ha cominciato a ricostruire una biblioteca secondo il suo gusto. A Venezia ha continuato a comprare libri, della letteratura conosciuta in giovinezza, che citava nelle omelie o durante i dialoghi con i ragazzi della catechesi; e che si ritrova nei suoi scritti sul Gazzettino e sul Messaggero di S. Antonio: Dickens, Tolstoj, i grandi classici della letteratura mondiale. Aveva una grandissima memoria, sapeva dove trovare le citazioni. Annotava tutto in quaderni o in vecchie agende, da cui poi ripescava quello che gli serviva. Quando è andato a Roma per il conclave, mi ha telefonato chiedendomi di mandargli le agende in cui aveva annotato i suoi schemi sul Concilio. Quando ha fatto i primi discorsi da Papa avrei saputo dire da che agenda e a che pagina aveva attinto: erano i testi che molte volte anche nei discorsi a Venezia aveva riportato.

 

Aveva passioni?

Una molto grande per la natura. Raccontava sempre della sua vita in montagna, delle sue vacanze, delle sue passeggiate, della raccolta della legna e dei funghi. In vacanza andavamo a Pietralba, in provincia di Bolzano, in un santuario dei Servi di Maria. Facevamo le nostre passeggiate, la scalatina al Corno Bianco, le partite a bocce? Ci andava fin da bambino, partendo da Canale d'Agordo, dormendo nei fienili. Conosceva tutti i nomi delle piante e delle montagne. Era stato preso, poi, da un fascino simile per Venezia. Diceva: da noi ai pali legano le mucche, qui le gondole... Quando aveva ospiti li portava a visitare le isole.

 

Come descriverebbe la sua personalità?

Era sereno e allegro. A tavola desiderava parlare di cose leggere. Quando è stato nominato Patriarca mi ha chiamato subito a Vittorio Veneto (mi aveva conosciuto quando ero segretario di Urbani) perché gli dessi una mano nel rispondere ai telegrammi, visto che conoscevo le persone. Mi ha detto: "Per piacere, continua a farmi da segretario". Io gli ho spiegato che, dopo l'esperienza con Urbani, mi sarebbe piaciuto andare in parrocchia. Ma lui ha insistito: "Ti conosco, a tavola siamo sereni, chiacchieriamo e scherziamo, non vorrei uno che mi fa il muso duro. Poi, man mano che conosco i miei preti, ne scelgo un altro". Ma questo è avvenuto sette anni dopo.

 

Non tutti, specie tra i preti, lo ricordano sereno e allegro...

Sì, in qualche momento era duro. Era diventato rigido sul piano dottrinale. Non tanto per una sua posizione, ma per fedeltà alla Chiesa. Sentiva la responsabilità dell'essere vescovo, per alcuni anni vice presidente della Cei e presidente dei vescovi del Triveneto. Mons. Bettazzi mi diceva a volte: di' al Patriarca che è lui che deve intervenire, perché ha una voce diversa: se siamo noi "piccoli" vescovi ad intervenire... Lui ha sentito questa responsabilità. In questo senso è diventato teologicamente più rigido rispetto al periodo di Vittorio Veneto; qualche volta anche sul piano umano. Non era mancanza di carità, ma una fedeltà vissuta prima di tutto in prima persona.

 

Quali erano i capisaldi del suo pensiero?

Il Concilio Vaticano II. E' stato un uomo cresciuto col Concilio, nel Concilio e che quindi si è nutrito del Concilio. Le sue citazioni nascevano dalla Gaudium et Spes, dalla Lumen Gentium. Anche nel suo discorso da primo cardinale al Papa ha fatto una riflessione sul sentirsi figlio di un concilio, che dev'essere però un Concilio fedele. Ci sono alcuni che sono ancora legati al Concilio Vaticano I, pochi al Vaticano II e molti vorrebbero essere già con il Vaticano III...

 

Cosa può aver giocato sulla sua elezione a Papa?

Secondo me tre fattori. Il primo è di essere Patriarca di Venezia, che aveva già dato al soglio pontificio Pio X, e Giovanni XXIII. Il secondo è che lui, o per nomina della Cei o per nomina diretta del Papa era presente a tutti i sinodi ordinari e straordinari dei vescovi: era dunque conosciuto nel gruppo dei vescovi sinodali, che venivano da tutto il mondo ed erano presidenti delle Conferenze episcopali o appartenevano a congregazioni vaticane. Il terzo motivo è che ha cominciato presto, su richiesta di papa Paolo VI, a scrivere sull'Osservatore Romano. Quando è arrivato a Roma, insomma, non era per nulla uno sconosciuto. Sconosciuto era, semmai, dal mondo politico, di pettegolezzo, vaticano...

 

Come ha reagito lei, mons. Senigaglia, alla sua elezione a Papa? E alla notizia della sua morte?

Sono stato contento e meravigliato, anche se non del tutto, per l'elezione. Ho pianto, ma anche goduto, per la morte. Mi spiego: pensavo che in quel momento, forse, il peso era più grande della portata delle sue spalle; forse il Signore l'aveva premiato per la sua fedeltà, la sua spiritualità e le sue sofferenze per amore alla Chiesa con un pontificato di 33 giorni. Se non fosse riuscito a crearsi subito un gruppo di collaboratori avrebbe avuto un pontificato di sofferenza. A questo proposito, lui aveva subito cercato di individuare il gruppo di collaboratori: se avesse fatto alcune scelte avrebbe governato in un certo modo. Andò diversamente: per noi cristiani tutto è Provvidenza.

 

Che rapporto c'è stato tra lei e Luciani?

Credo si possa dire di amicizia. Nel tempo il dialogo era stato capace di costruire con lui rapporti che non avrei mai pensato. Non si dimentichi che io ero un prete giovane, avevo otto anni di messa quando ho iniziato il lavoro con lui. Stando insieme dalla mattina alla sera, a tavola, in auto, si mettono in comune anche le cose personali. Qualche volta arrivava a chiedermi: Ho questo problema, come posso risolverlo?

 

Erano gli anni Settanta: come ha vissuto quella stagione di fermento sociale e politico?

In molti casi ha ricoperto un ruolo di mediatore, incontrandosi ad esempio con i sindacati da una parte e gli imprenditori dall'altra. Visitava gli stabilimenti, non solo in occasione delle messe che i cappellani del lavoro organizzavano. C'è sempre stato un rapporto buono con politici e sindacalisti. Ricordo una telefonata di un politico, nel 1970, in occasione della prima giunta veneziana di centrosinistra (sindaco sarà Giorgio Longo). Volevano incontrare il Patriarca. Mi ha detto di rispondergli: "Se volete venire, il Patriarca vi riceve; ma le scelte che fate siete capaci di farle in autonomia, perché siete cristiani, laici impegnati, uomini maturi. Fate le vostre scelte senza preoccupazione...".

 

Sono stati anche gli anni del referendum sul divorzio e sull'aborto: anni di strappi, anche umani, tra il Patriarca e parte del clero veneziano che aveva assunto posizioni in contrasto con quelle della Chiesa del tempo. Si può guardare oggi a quei fatti con occhi diversi?

Sarebbe un capitolo da affrontare con un po' di schiettezza, libertà e serenità, per togliere le spigolature che il tempo ha creato e anche quegli equivoci che non danno oggi serenità alle persone che sono state coinvolte in quei fatti. Un vescovo deve essere fedele, non può dimenticare la sua comunità. Se la responsabilità è forte, pretende dai suoi preti un'altrettanto forte fedeltà. Nel momento della contestazione è emerso proprio questo problema.

 

A Belluno si avvia il processo canonico che potrebbe portare alla beatificazione di Luciani. In cosa può aver dimostrato la sua santità a Venezia?

Nello stile di vita, nella sua spiritualità e nella sua carica umana. Ma a volte mi chiedo che motivo c'è di cercare di portarlo alla gloria degli altari. Soltanto perché è stato Papa? La mia perplessità sta nelle motivazioni: tenendo conto che era un uomo talmente mite e umile che non avrebbe certamente cercato la santità degli altari, ma quella del servizio. E forse questa non va celebrata. E poi, sono già morti molti testimoni e c'è il pericolo dell'aneddotica o del mito.

 

Quale eredità ha lasciato al nostro patriarcato?

Quello vissuto da lui è stato un momento di passaggio nella Chiesa. Il dopo-Concilio era stato burrascoso, a livello politico e sociale si veniva dal '68? Con gli anni '80 è entrata nella Chiesa una ventata di maggior serenità nei rapporti, che dura tutt'ora. La sua eredità più bella è stata quella di aver preparato il terreno al clima di oggi. E' stato duro il prezzo pagato: la sofferenza di allora ha portato alla serenità di oggi, in tutta la Chiesa. Anche la nostra Chiesa doveva soffrire per le lacerazioni, le fuoriuscite, le diaspore; per poi, purificata, vivere un tempo di maggior serenità. Dovremmo essere grati a quella Chiesa che ci ha dato questa Chiesa.

 

Intervista a cura di Paolo Fusco